Storie di una periferia: Di niente e di nessuno, Dario Levantino

Cari topi,

il 19 aprile è uscito in libreria Di niente e di nessuno, romanzo d’esordio edito da Fazi di Dario Levantino, giovane scrittore palermitano. Dovendo aspettare di terminare il libro che avevo in lettura (Storia della bambina perduta, ovvero l’ultimo volume della saga di Elena Ferrante che, tra parentesi, mi è piaciuto tantissimo), ho aspettato parecchio prima di cominciare questo bel libriccino in stile Fazi (credo sia impossibile, infatti, non innamorarsi della grafica elegantissima di questa casa editrice!) accumulando, nel frattempo, aspettative su aspettative.

Se nel complesso il romanzo mi è piaciuto, le aspettative che avevo accumulato sono state in parte deluse per via di un paio di tratti della scrittura che non mi sono piaciuti, questioni puramente formali e stilistiche le quali non sono state di mio personale gradimento. Uno di questi aspetti è l’uso dei tempi verbali: la storia, infatti, che inizia con un passato remoto – il classico tempo della narrazione – alterna questo tempo verbale al presente e al passato prossimo. Se la cosa mi ha irritata nel passaggio da un capoverso all’altro, è stato ancora più fastidioso trovare frasi di questo tipo:

 “Esco. Prendo un po’ d’aria. C’è ancora il cane barbone che mi segue da giorni. Appena mi vide abbandona la sua tana di pelo vorticale, sferza l’aria con la coda.”

Quest’ultima è sicuramente una svista ma capite bene quanto spesso mi sia sentita spaesata nella lettura. Il problema generale è che, alternando i due passati, il narratore-lettore si trova a distanza diversa dall’azione descritta e questo pare inverosimile soprattutto se gli eventi si susseguono uno dopo l’altro. In questo contesto, inoltre, non si capisce la natura del presente indicativo, che spesso fa capolino. Non so se si tratta di un mio limite, di una caratteristica della scrittura che non sono riuscita a cogliere a pieno e quindi ad apprezzare, ma è una cosa che, personalmente, non ho gradito.

Secondo e ultimo aspetto che non mi è piaciuto è stato l’aver trovato nel testo qualche sbavatura o imprecisione, acrobazie lessicali e frasali che mi hanno interdetta più di una volta e che hanno impedito che la scrittura mi trasportasse nel vortice dell’immaginazione. A mo’ di esempio: “Mi sorpassa una Lancia Y, il suo baricentro sfiora l’asfalto”. Chi ha studiato un minimo di fisica capisce che questa frase non ha molto senso poiché è impossibile che il baricentro di un’auto sfiori l’asfalto a meno che non sia carica di roba (ma non mi pare sia questo il caso, altrimenti sarebbe stato specificato o sarebbe stato aggiunto qualche dettaglio in più). Insomma, tra funambolismi linguistici un po’ privi di senso e tempi verbali che avrebbero meritato una limatura in più durante la fase di revisione, non sono d’accordo con chi sostiene che quella di Levantino sia una scrittura matura.

Tuttavia, pur trovandoli sgradevoli, ho voluto giustificare questi aspetti della scrittura al fatto che si tratta del primo romanzo dell’autore. Aggiungerei anche che, pur trattandosi del primo, non è per niente male. Anzi.

Arriviamo dunque alle cose che invece sì, mi sono piaciute. Una di queste, che ho adorato tantissimo, è il fatto che il libro sia ambientato a Palermo, mia città natale, dove attualmente mi trovo (speranzosa di trovare qualcosa che mi permetta di sbarcare il lunario autonomamente, in linea con le mie aspettative e il mio titolo di studi, ma questa è un’altra storia). Più in particolare, la cornice della storia è Brancaccio, un quartiere della costa sud della città, abbandonato a sé stesso e proprio in questo modo ben descritto dall’autore:

“Le pareti delle case a ridosso del doppio binario erano annerite di CO2. Sui marciapiedi auto posteggiate, la spazzatura seminata come grano. Una donna stendeva lenzuole lise a poca distanza dal treno; due bambini giocavano ad aggaddarsi; un palazzo non terminato era diventato un carnaio di cacca di piccioni e amianto; a un’inferriata qualcuno aveva appeso una frizione di auto; un mio coetaneo sbraitava i numeri della lotteria del rione; sul balcone sopra la putìa un vecchio materasso esibiva emorroidi di gommapiuma e poliuretano; in prossimità del passaggio a livello un impianto stereo faceva vibrare il cofano della Fiat Uno che lo conteneva; un signore con la canottiera rovistava nella spazzatura; una Lambretta piena di detersivi legati a un filo procedeva contromano. Quel passaggio obbligato del treno all’interno di Brancaccio era crudele. Perché non avevano fatto passare i binari in un’altra zona? Perché non da via Libertà o da viale Lazio? La povertà non dev’essere spettacolo per turisti. Della povertà si deve avere soltanto rispetto.”

Sono pochi i chilometri che separano Brancaccio dal centro, o dalla “Palermo bene” come la chiama il nostro giovane protagonista, Rosario, eppure nelle sue parole troviamo tutto ciò che serve per descrivere questo angolo di mondo dimenticato dall’amministrazione, se non da Dio.

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Dario Levantino, 32 anni e una vita lontana dalla sua Palermo: insegna, infatti, lettere in un liceo di Monza.

 

Palermo col suo mare e la Sicilia non sono protagoniste insieme a Rosario ma comparse fondamentali: fanno da cornice e aiutano a comporre un quadro ben chiaro anche a chi, a Palermo, ci ha vissuto e che ne conosce persino le periferie. Ancora di più, però, forniscono gli strumenti adeguati a chi Palermo non la conosce, in modo che la immagini e ne riceva un’immagine nitida e dai contorni ben definiti.

Al nostro Rosario, di 15 anni, ci si affeziona perché è un ragazzino speciale: alla sua età non pensa soltanto al calcio e alle fimmine, anzi. Sebbene palloni e fidanzatine non manchino, Rosario vince i concorsi di poesia indetti dalla sua scuola, ha un occhio di riguardo nei confronti di sua madre (“la migliore del mondo”), si appassiona all’epica dalle cui storie trae insegnamenti per vivere la sua vita (nel testo infatti appare la pietas greca, che in fondo è il motore di questa storia).

Di niente e di nessuno è un romanzo di formazione perché segue la crescita del protagonista sin dalla canonica situazione iniziale, apparentemente tranquilla, in cui il personaggio è ancora un bambino, passando poi per il momento in cui lo status quo viene sconvolto, fino al superamento dell’ostacolo, alla dimostrazione ultima del fatto che Rosario non è più il ragazzino delle prime pagine. Si è assunto la responsabilità delle sue azioni anche a scapito della sua serenità, dell’equilibrio della sua famiglia, e ha compiuto scelte difficili che lo hanno messo in difficoltà ma alla fine dimostrerà di essere coerente con sé stesso e ancor di più con l’uomo che diventerà.

Ecco, per esemplificare il mio apprezzamento di questo libro vorrei invitarvi a immaginare una serie di cerchi concentrici. C’è un grosso nucleo e, oltre la circonferenza, cerchi sempre più lontani. Se consideriamo che il nucleo è la trama e che i cerchi concentrici sono, nell’ordine dal più piccolo al più grande, i dettagli della storia, lo stile e le scelte formali, potremmo dire che il mio godimento di questo romanzo è stato inversamente proporzionale alla distanza dal centro.

Mi spiego meglio: la trama mi è piaciuta molto e, a parte alcuni momenti in cui mi sembrava che protagonista fosse la storia e non Rosario (mi sono trovata a incitarlo spesso: “cresci!”, “reagisci!”, “rispondi a tono!” sono le cose che avrei voluto dirgli quando mi sembrava solo uno spettatore di ciò che gli accadeva intorno), sono riuscita ad affezionarmi a lui e a questa sua tendenza a intrecciare la sua storia individuale con i personaggi dei poemi epici.

Alcuni dettagli della storia, però, li ho trovato banali – talvolta fini a sé stessi – e non mi hanno trasmesso nulla, non sono riuscita a individuare il loro valore all’interno della storia. Alcune situazioni e alcuni personaggi mi sono sembrati un po’ irreali ma vabbè, è un romanzo e pur sempre di finzione si tratta.

La scrittura, a parte le sbavature, è controllata e devo ammettere che molte volte mi ha emozionata vista la capacità dell’autore, in alcuni momenti che lo richiedevano, di scegliere le parole e gli accostamenti giusti capaci, quando serviva, di toccare tasti interiori, generare emozioni.

Per concludere, topini, questa è la mia riflessione su un romanzo di esordio di un mio concittadino e spero, nonostante le riserve espresse, di avervi invogliato a leggere questo pezzettino della mia città 🙂

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